È il 29 ottobre del 2000. Giovanni Paolo II celebra allo stadio Olimpico il Giubileo degli Sportivi. La Nazionale di calcio incontra una selezione di giocatori stranieri del campionato italiano.

In Curva Sud, viene esposta una maglia azzurra con il numero 22, tanti sono gli anni del suo Pontificato. Il Papa richiama i 70mila dello Stadio a fare ogni sforzo “per la salvaguardia del corpo umano” difendendolo da “ogni attentato alla sua integrità, da ogni sfruttamento, da ogni idolatria”. Si coglie l’allusione al cancro del doping.

Poi Wojtyla stringe la mano a Roberto Baggio, poi a Francesco Totti, mentre Antonio Rossi, il canoista due volte d’oro alle Olimpiadi, prende la parola in rappresentanza di tutti gli atleti. Fra questi c’è un quindicenne, nato in America, cresciuto a Rieti, grande speranza dell’atletica italiana: si chiama Andrew Howe, è allenato dalla mamma, appena tre settimane prima ha stabilito il record italiano del salto in lungo nella sua categoria con 7 metri e 52 centimetri. Fa tutto, e lo fa bene, ballando con disinvoltura fra la pista per la velocità e le pedane.

Pietro Mennea con Andrew Howe e la madre Renée Felton – Fotografo: Tedeschi

L’incontro fra il Papa e il futuro vicecampione del mondo diventa uno dei simboli della giornata: la rivista della Studentesca Cariri, la società per la quale Andrew gareggia, lo celebra. Una giornata che Howe non dimenticherà, come quella in cui incontrò Mennea, immenso mito sportivo, in un ristorante affacciato sul Tevere.