Paolo Rosi è più fortunato di Nando Martellini. Lentamente, ma sempre di più, i frequentatori dello stadio che porta il suo nome hanno ormai metabolizzato l’intitolazione all’ex rugbista diventato poi telecronista di boxe, atletica e, naturalmente, palla ovale. Non più, o comunque sempre meno, Acquacetosa o Stadio delle Aquile, ma Paolo Rosi, che peraltro aveva casa a poche centinaia di metri dall’impianto. Diverso è il discorso di Caracalla, magari perché l’epopea di Martellini è legata a quel “campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo” del 1982 al Santiago Bernabeu e a tanto calcio raccontato.

Quell’arrivo che Paolo Rosi raccontò per la televisione, quasi all’inizio di un percorso nato dopo un concorso vinto a Milano nel lontano 1954, dopo un percorso sportivo di livello, due scudetti con la Rugby Roma e 14 partite in Nazionale, fino alla mitica prima meta azzurra a Twickenham.

Aveva uno stile inconfondibile: la voce iconica, le pause, la perfetta corrispondenza fra ciò che la gente vedeva in tv e le sue parole. Il Frank Sinatra dei telecronisti. Nessun inganno al telespettatore, i decibel si alzavano soltanto quando ne valeva la pena. Ecco allora la rimonta olimpica di Pietro Mennea a Mosca, quel “recupera” strillato sei volte fino al liberatorio “ha vinto!”.

E il crescendo quasi lirico con cui, “Covaaa, Cova, Covaaa”, diede conto dell’azzurro che si prende l’oro del primo mondiale dei 10.000 a Helsinki.

Fino all’ultima puntata, il dialogo con Gelindo Bordin impegnato nell’ultimo giro della vittoriosa maratona di Seul, “Vai Gelindo, hai messo in ginocchio i corridori degli altipiani, tu che vivi in pianura…”