Marciava. Qualche volta vinceva. Una in particolare: la Roma-Castelgandolfo del 1956. Ma i grandi non c’erano, gareggiavano alle Olimpiadi di Melbourne. Soprattutto si allenava. Sempre, tanto.

Carlo Bomba, Carletto per gli amici, era un personaggio che, quando lo conoscevi, ti sembrava di averlo incontrato mille volte. Aveva un che di familiare, ti veniva voglia di carezzargli la pelata e di chiedergli perché s’era innamorato della specialità più faticosa dell’atletica. Lui rispondeva e nei suoi discorsi faceva capolino spesso il quartiere, il suo quartiere: Monte Mario.

Raccontava degli autisti dell’Atac che gli suonavano il clacson per incoraggiarlo nelle sue collezioni di chilometri. E di un luogo del cuore: il parco del Santa Maria della Pietà. Quello che ospitò fino alla fine degli anni ’70 un manicomio, oggi trasformato in Museo della Mente. Ogni tanto, incontrava quelle persone reduci dai padiglioni dell’elettroshock, le incrociava e le salutava. Un’umanità sofferente su cui magari Carletto avrà riflettuto mille volte nei pensieri che facevano compagnia ai chilometri. Quando il manicomio chiuse, Bomba aveva lasciato la marcia per la corsa, ma era ormai un grande ex. Che però non riusciva a fare a meno di quel luogo, di quegli alberi, di quei padiglioni, reperti di un tempo lontano.

Continuava ad allenarsi in quello che ormai era diventato un parco. Poi lasciò Roma e Monte Mario, finì a Tragliatella di Fiumicino da dove raggiungeva ogni mattina la spiaggia di Marina di San Nicola per continuare a muoversi. Al primo pomeriggio, però, non c’era verso: prendeva il trenino e tornava al Santa Maria della Pietà su una panchina che era diventata la sua casa. Pensando ai chilometri dei suoi giorni migliori.