LA TORTA DI JACOBS: “IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE”

Marcell Jacobs era appena tornato dal suo primo grande successo, la vittoria nei campionati europei indoor di Torun, in Polonia.

Sembrava un giorno come tutti gli altri, ma appena varcata la soglia di ingresso dello stadio Paolo Rosi, a Roma, si rese conto che nella sua “seconda casa” qualcuno gli aveva preparato un’accoglienza speciale.

Lo striscione diceva “onore al campione d’Europa”. Ma era la torta a spingersi più in là con un pronostico vestito da speranza che diventò poi realtà a Tokyo. Con la panna e il cioccolato era venuta fuori questa scritta: “Il meglio deve ancora venire”. E venne. E venne grazie a questo stadio che ha il nome del telecronista che raccontò la grande impresa di Pietro Mennea a Mosca e tante altre storie. Sulla pista del Paolo Rosi, Marcell Jacobs è diventato grande, grandissimo.

La sua zona di lavoro è sempre stata quella del rettilineo finale, con il lettino per i massaggi all’altezza del piccolo boschetto che gli amatori sfruttano per accumulare chilometri. Jacobs si è sempre mischiato con loro, a volte condividendo qualche battuta per salutarsi, come con i ragazzi autistici del Progetto Filippide. Poi, è partito per gli Stati Uniti. Ma sa che questo rimarrà il luogo del cuore e un posto dove ritrovarsi, il suo personale Colosseo (quello vero se l’è tatuato addosso), un paesaggio che, parole sue, “sarà sempre con me”.

HOWE E QUELLA STRETTA DI MANO CON WOJTYLA

È il 29 ottobre del 2000. Giovanni Paolo II celebra allo stadio Olimpico il Giubileo degli Sportivi. La Nazionale di calcio incontra una selezione di giocatori stranieri del campionato italiano.

In Curva Sud, viene esposta una maglia azzurra con il numero 22, tanti sono gli anni del suo Pontificato. Il Papa richiama i 70mila dello Stadio a fare ogni sforzo “per la salvaguardia del corpo umano” difendendolo da “ogni attentato alla sua integrità, da ogni sfruttamento, da ogni idolatria”. Si coglie l’allusione al cancro del doping.

Poi Wojtyla stringe la mano a Roberto Baggio, poi a Francesco Totti, mentre Antonio Rossi, il canoista due volte d’oro alle Olimpiadi, prende la parola in rappresentanza di tutti gli atleti. Fra questi c’è un quindicenne, nato in America, cresciuto a Rieti, grande speranza dell’atletica italiana: si chiama Andrew Howe, è allenato dalla mamma, appena tre settimane prima ha stabilito il record italiano del salto in lungo nella sua categoria con 7 metri e 52 centimetri. Fa tutto, e lo fa bene, ballando con disinvoltura fra la pista per la velocità e le pedane.

Pietro Mennea con Andrew Howe e la madre Renée Felton – Fotografo: Tedeschi

L’incontro fra il Papa e il futuro vicecampione del mondo diventa uno dei simboli della giornata: la rivista della Studentesca Cariri, la società per la quale Andrew gareggia, lo celebra. Una giornata che Howe non dimenticherà, come quella in cui incontrò Mennea, immenso mito sportivo, in un ristorante affacciato sul Tevere.

LA CORSA: I GIGANTI DEL VILLAGGIO OLIMPICO

Abitano al Villaggio Olimpico, nel grande piazzale del mercato del venerdì. Hanno quasi cent’anni, ma se li portano bene. Guardano tutti dall’alto verso il basso con i loro due metri e mezzo. Eppure, non incutono timore, qualcuno ci vede invece tenerezza. Sono le figure della scultura “La corsa”, una delle quattro della serie di Amleto Cataldi, l’artista a cui furono commissionate per lo Stadio Nazionale, il papà del Flaminio, in occasione della ristrutturazione del 1929.

In effetti, quello fu il grande momento dei giganti, che adornavano lo spettacolare ingresso all’altro lato dell’area dell’impianto, in direzione Piazza del Popolo. C’erano pure loro a dare il benvenuto agli spettatori quando la nazionale italiana di calcio vinse il Mondiale nel 1934. Un’altra ristrutturazione, però, sancì lo sfratto. Finirono nei magazzini del comune di Roma fino a che furono proprio le Olimpiadi a suggerire di riscoprirli. I giganti, però, erano in condizioni pessime, dimenticati da tutti.

Fu allora che si pensò a una nuova casa. E sorse l’idea del Villaggio Olimpico, subito però osteggiata – così dicono i racconti dei cittadini più fedeli alla zona – da un movimento nato nella vicina parrocchia e perplesso per il “mancato abbigliamento” dei giganti. Fatto sta che quest’ostracismo fu battuto.

E ora eccoli lì, con quel titolo, “La corsa”, che dà l’idea di un movimento permanente pur stando fermi. Li conosceva bene, i giganti, anche Mauro Valeri, sociologo appassionato, grande studioso del razzismo nello sport e suo coltissimo nemico, che si era sempre speso per la conservazione della memoria di questi luoghi figli della Roma olimpica. Una persona che manca allo sport. E anche a questi giganti suoi vicini di casa.

PASOLINI DIVENTÒ L’AMICO DEL SALTO TRIPLO

Pier Paolo Pasolini era uno sportivo. Andava in bicicletta sulle Dolomiti, era tifosissimo del Bologna, all’università aveva giocato a basket. Quando arrivò a Roma, cominciò a inseguire tanti palloni in periferia. Il regista-scrittore-polemista in gioventù si era anche cimentato nell’atletica. E proprio un suo amico, Luciano Serra, raccontò di una gara dei 1500 metri in cui il futuro autore di “Ragazzi di vita”, piegato da un attacco di dissenteria, finì la sua corsa nei bagni dello spogliatoio. Serra era un saltatore. Un triplista, autore peraltro di una pregevole “Storia dell’atletica europea”. Fu un amico carissimo di Pasolini. E forse gli istillò anche il gusto per l’hop step jump dell’atletica.

Trent’anni dopo, nel 1969, Pasolini incrociò un altro triplista, uno che era stato primatista del mondo e l’anno prima aveva conquistato la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Città del Messico: Giuseppe Gentile.

Fisico scultoreo e talento puro, al saltatore fu offerta la parte di Giasone nella Medea pasoliniana, ora recentemente restaurata per l’ultimo Rome Film Festival.

Inizialmente il saltatore, preso dai suoi impegni sportivi, disse no. Poi, complice qualche infortunio di troppo che non gli dava tregua, si buttò nell’impresa che condivise con il grande regista e con Maria Callas, che interpretava appunto Medea per la tragedia scritta da Euripide. Le riprese furono girate in Siria, in Turchia, a Pisa e a Grado, ma il cast trascorse diverso tempo a Roma ed è qui che Pasolini incaricò Gentile e il suo amico Gianni Brandizzi, discobolo e anche lui fra gli attori del film nella parte di Ercole, di fare da ciceroni per la Divina Callas nelle serate di Roma.

VILLA GORDIANI: LE 151 DONNE CHE FECERO LA STORIA

L’anno è il 1979. Il giorno, forse non c’è bisogno di scriverlo, è l’8 marzo. Il luogo è Villa Gordiani, non nella sua parte più grande e conosciuta però, nell’altra, quella del sito archeologico.

È qui che 151 donne fanno la storia.

Gabriella Stramaccioni, una di loro, mezzofondista e futura maratoneta, poi prima presidente donna di un comitato provinciale Fidal (quello di Roma), ha avuto l’idea: correre tutte insieme, la mattina di un giorno feriale. Ne parla con Mauro e Ines, dirigenti della storica Polisportiva Roma 6 Villa Gordiani. Proviamoci. Ecco allora il percorso, tre o quattro chilometri, giusto per cominciare una storia, lo striscione, una platea di podisti fatta di studentesse e casalinghe.

 

C’è tanta voglia di correre, di prendersi un palcoscenico, di dire: è anche nostro. La Corsa della Donna si alza in volo e poi decolla, arriva persino a 5mila presenze nei primi anni ‘80, poi cambia pelle, subisce la concorrenza di manifestazioni dal significato più agonistico, ma resta sempre in piedi nonostante qualche interruzione. Senza mollare la sua culla, Villa Gordiani.

Consapevole di tutto il percorso fatto.Solo nel 1975 una circolare del ministero della Salute vietava alle donne alcune discipline sportive giudicate troppo faticose.

Di tempo e di chilometri ne sono passati, la percentuale femminile nella partecipazione ha raggiunto nelle corse podistiche italiane il 25 per cento. Certo c’è ancora tanto da crescere, ma una cosa è sicura: anche le circolari ministeriali, a volte, sbagliano.

IL MONDO SALVATO DAI RAGAZZINI A TOR TRE TESTE

C’è un momento dell’anno in cui la Corsa di Miguel moltiplica i suoi palcoscenici. La domenica dell’Olimpico cede il testimone alle diverse piste in giro per la città, un mosaico che si frammenta e che si ricomporrà solo per la finale allo stadio dei Marmi. Fra questi impianti, quello di Tor Tre Teste, lo stadio intitolato ad Antonio Nori, il più giovane della capitale, il fratellino del parco dove fanno su e giù gli amatori, davanti alle Vele di Meyer.

Qui, l’atletica convive con il rugby, due sport legati sempre da un certo feeling. Marcello Fiasconaro, primatista del mondo degli 800 metri nel 1973 all’Arena di Milano, veniva dall’ovale e nelle sue falcate si intuiva quel passato rugbistico. E molti anni prima, uno degli eroi delle Olimpiadi di Parigi 1924, immortalato dal film premio Oscar “Momenti di gloria”, fu Eric Liddell, che aveva vissuto una carriera divisa fra la pista, fino all’oro olimpico dei 400 metri, e la sua veste di ala nella nazionale scozzese di rugby. Un personaggio straordinario che finì i suoi giorni da missionario in Cina, a dividersi fra la lettura della Bibbia e le partite in cui aveva sostituito il rugby con il basket per comunicare con i ragazzini di quelle parti.

Ora, però, è il momento di una gara diversa, che poi proprio gara non è, lo si può chiamare Staffettone o più basicamente, festa. Tutti con il cappellino giallo, tutti nel ricordo di Miguel. E a distanza di anni, c’è in questa immagine un’imbattibile tenerezza. Come se l’atletica avesse voluto rubare alla scrittrice Elsa Morante un titolo dei suoi libri: il mondo salvato dai ragazzini.

STUDENTESCHI DI ATLETICA: PIENONE ALL’OLIMPICO

Avete letto bene. E soprattutto, avete visto bene. Fine anni ’50, lo stadio Olimpico di Roma è praticamente un bimbo, è stato inaugurato il 17 maggio 1953, deve ancora vivere l’apoteosi dei Giochi Olimpici del 1960. L’Italia è un Paese con un tasso di sportività molto limitato: secondo l’Istat, soltanto un milione di italiani, (oggi questa cifra si è grosso modo moltiplicata per 20) dichiara di praticare un’attività sportiva saltuaria o continuativa. Dunque, si va all’Olimpico. Non c’è ancora la copertura, la capienza è più grande, ci sono ancora i posti in piedi. L’atletica ha un suo fascino, ma per la preolimpica in cui il marinaio Vladimir Kuts stabilisce il primato del mondo dei 5000 metri gli spalti non sono certo vicini al sold-out. La scena si ribalta quando arrivano le scuole.

Le finali dei campionati studenteschi vengono disputate in uno stadio che somiglia a quello dei giorni dei derby o delle sfide scudetto. Tutti a correre, a saltare, a lanciare. E poi c’è anche lui, il podio, proprio nelle gare di cui parlano i giornali e che ti fanno sognare di poter diventare un giorno campione e andare alle Olimpiadi.

Impossibile citare tutti i protagonisti di quella stagione, ma uno sì: il professor Argante Battaglia, trascinatore degli alunni dell’Armellini. È il momento più virtuoso della storia dell’atletica di base: in questi stessi anni grazie a uno storico accordo fra il ministero dell’Istruzione, la Fidal e il Coni, vengono costruiti decine di Campi scuola per l’atletica che ancora oggi rappresentano una parte significativa dell’impiantistica sportiva italiana.

I tutto esaurito dei campionati studenteschi somigliano a un sogno irripetibile. Ma a volte si dice: mai dire mai…

TAMBERI IN CURVA SUD: “ORA CAPISCO TOTTI…”

La magica osmosi di energia tra Gianmarco Tamberi e gli appassionati di atletica era avvenuta anche in quella serata di giugno, a Roma, al Golden Gala. Era il 2016. Gimbo, con la consueta “mezza barba”, si piazzò terzo con 2.30. La gara fu vinta da Bohdan Bondarenko, protagonista di quello che sarebbe stato il suo ultimo anno ad altissimo livello, con 2.33. Il secondo posto fu appannaggio del britannico Grabarz, che saltò la stessa misura del portacolori azzurro. Gimbo stava entrando in forma: poco più di un mese più tardi avrebbe raggiunto i 2.39 in quella vorticosa e sciagurata serata a Montecarlo. Quel 15 luglio arrivò dove non è più arrivato, alla soglia dei 2 metri e 40. Lo sappiamo, l’infortunio che si procurò mentre tentava di varcare l’asticella a 2.41 lo costrinse a saltare Rio, per poi guadagnare un oro ancora più bello cinque anni più tardi. Gianmarco è così, non si risparmia mai. Quando è in pedana, dà tutto fino all’ultimo.

Durante quel Golden Gala del 2016 concentrato, avrebbe voluto regalare di più ai tifosi in pedana. Donò comunque tutto sé stesso sugli spalti, fermandosi a firmare autografi in mezzo al pubblico.

Sognava gli eventuali Giochi Olimpici di Roma 2024, come avrebbe rivelato ai giornalisti dopo la gara, e nel frattempo si godeva la folla del meeting, che lo aveva supportato durante tutta la gara con grande trasporto: “Ora capisco perché Totti è così felice qui: un entusiasmo fantastico”, aveva detto, con il suo carismatico ed irresistibile sorriso stampato in viso.

PALMISANO E STANO, L’ORO NASCE IN PINETA

Lui, lei, l’altra. Dove l’altra è la Pineta di Castelfusano, il posto in cui Massimo Stano e Antonella Palmisano hanno costruito la lunga marcia verso la medaglia d’oro olimpica di Sapporo del 2021 seguendo le indicazioni del loro allenatore Patrick Parcesepe. Dietro ogni medaglia c’è un lungo, minuzioso allenamento, un mattone dopo l’altro ci si allena a tutte le variabili che possono capitarti nel giorno della verità.

Per conoscerle e interrogarle, Antonella e Massimo sono andati in Giappone due anni prima per un periodo di “collaudo” provando il clima, le strade, le reazioni del loro corpo. Ma adesso non c’è più tempo per parlare del “prima”, del mal di schiena della Palmisano che l’aveva portata vicino alla resa a poche settimane dal viaggio verso i Giochi, dei libri e dei test di Stano per imparare il giapponese, poi utilizzato in gara, nel momento clou, per iniettare stupore nei pensieri dei padroni di casa suoi compagni di fuga.

Ora è il momento del “dopo”, della festa, del ritrovare i luoghi dove quei 20 chilometri sono cominciati. Al ritorno in Italia, ecco che i nomi dell’atleta delle Fiamme Gialle, di quello delle Fiamme Oro e del loro tecnico, sono diventati una festa di benvenuto grazie a una scritta sull’asfalto: “Ostia padrone delle 20 km di marcia olimpica. I lidensi ringraziano”. E sì perché Ostia è stata la capitale di questo piccolo grande miracolo sportivo su quelle strade in cui la marcia femminile mosse i suoi primi passi grazie alla vittoria di una ragazza campionessa del mondo indoor nel 1985, Giuliana Salce, fra i primi a complimentarsi con i due trionfatori giapponesi.

LA STAFFETTA D’ORO FA FESTA SOTTO A UN TETTO

In prima frazione c’è Lorenzo Patta, l’esordiente sbarazzino che l’atletica, udite udite, ha “rubato” al calcio. Poi è toccato a Marcell Jacobs, appena reduce dal big bang dell’oro dei 100 metri.

Quindi, ecco Fausto Desalu, cresciuto a pane e sogni con sua madre, l’uomo della curva. Quindi l’estasi finale della rimonta di Filippo Tortu, schiantato dalla delusione della prova individuale ma strepitosamente risorto nella staffetta. Già, la staffetta: l’atletica che diventa squadra. E che squadra. E ora, in un’ordinaria mattinata romana, i quattro campioni del trionfo olimpico di Tokyo si ritrovano sotto un capannone che ha fatto la storia del loro sport. Fu il professor Carlo Vittori, il tecnico mito della nostra atletica, a chiederne la costruzione per consentire di allenarsi anche in caso di pioggia. Siamo allo stadio Paolo Rosi, all’Acqua Acetosa. E i quattro moschettieri si ritrovano insieme dopo mesi. Hanno l’aria di chi è tornato da un lungo viaggio, un giro del mondo fatto di emozioni che poi è diventato un racconto pronunciato mille volte. Non c’è più “Volare” trasmessa dall’altoparlante del National Stadium di Tokyo per celebrare il più impensabile dei successi italiani, con gli stessi protagonisti increduli durante le interviste post-gara.

Solo il rumore delle auto che scorrono nell’adiacente via dei Campi Sportivi. I quattro si ritrovano, si raccontano, si ricordano. Ognuno con la sua storia, il suo modo di vivere la felicità più grande che possa capitare a un atleta. Ognuno con l’atletica che è stata e quella che sarà. Forse a un certo punto si guardano, si sorridono e in quegli sguardi e in quei sorrisi c’è solo una domanda: “Ma vi rendete conto di che cos’abbiamo fatto?”.